Si, è caldo. A luglio, quest’anno, ma più o meno sempre attorno a mezzogiorno. È caldo.
Sei matto ad uscire al fitto sole, sudare, scattare, saltare? Si, sono matto. E ne ho bisogno per non impazzire.
Ho trovato il mio posto felice, anzi l’ho ripescato in fondo allo scatolone dei ricordi. L’ho recuperato, ripreso, trattenuto perché così deve essere. Anche quando vai per i 40, hai bisogno di aggrapparti a quel filo sottile che resta con quell’epoca in cui eri bambino.
E non esisteva il dubbio, la preoccupazione, la responsabilità, l’angoscia, la tristezza. Eri te con un pallone in mano — nel mio caso, un canestro di fronte e l’asfalto bruciante sotto le scarpe — la testa vergine di ogni male, una fortuna.
Lì, nel posto felice, passavi mattinate che sfociavano ben oltre l’ora di pranzo. Poi riprendevi molto presto nel pomeriggio, quando bisognerebbe stare al buio in casa a riposare, e ci facevi sera. Semmai, a buio quasi pesto, il posto felice lo potevi surrogare: un canestro nel parcheggio di casa, la polvere della ghiaia che ti si incolla alle narici, una luce accesa e un amico instancabile. Fino a quando non è tempo di andare a dormire.
Chiaramente, era estate ed era caldo, non avevi la scuola e rimandavi i compiti al “domani l’altro”. In quei pomeriggi al mare in cui davvero ti ritrovavi chiuso in casa al semibuio, ed eri quasi obbligato a fare quei dannati esercizi che puzzavano di costrizione. Meglio, ti impattavano addosso come un’ingiustizia: perché nei mesi spensierati deve mantenersi un “dover fare” che ti trattiene a quel che hai duramente passato, e che ti aspetta beffardo al rientro scolastico?
Perché la vita sarebbe stata quello, qualche decennio dopo. Senso di colpa da procrastinazione, sommatoria di cose da completare che, in quanto tali, ti ammazzano ogni voglia di farlo.
Ai tempi non lo sapevi, ma era un principio di training.
Comunque chi cazzo se ne frega dello ieri. A nessuno importa, è dal presente rognoso che devi fuggire. Anche se poi quella rogna non è che l’accumulo portato da velocità imposte e aumento dei carichi mentali, che la modernità regala a tutti o quasi. Pochi i fortunati che possono comprarsi il tempo libero, occupandolo di semplici voglie.
Io a 39 primavere superate ho ripreso in mano un pallone da basket, che non toccavo da un po’ di anni, e che ad intermittenza ho riscoperto nel tempo. Dopo che avevo abbandonato ogni velleità agonistica da ventenne: troppo basso, troppa fatica, focus spostato dal sacrificio improduttivo al divertimento fine a sé stesso.
La metodologia è sempre la stessa, palleggi un po’, ti approcci ad un primo tiro che scheggia a fatica il ferro, ed il giorno dopo polpacci e quadricipiti prendono fuoco. Provi a saltare e senti una zavorra ancorata alla schiena che ti tiene giù, facendoti atterrare pesante sull’asfalto non assorbente. È solo questione di riabituare il corpo, superare qualche giorno di sofferenza e darsene uno di recupero, poi riprovare.
Serve solo il posto felice.
Il dove poter restar lontano dagli imbarazzi generati dal tuo nuovo approccio a quello sport, per cui è meglio stare solo. Quell’orario che la vita ti mette a disposizione è ideale, soprattutto se ci sono 50 gradi sulla testa percepiti. A parte le zanzare, non ti ronza attorno anima senziente.
Devi sentire il rumore della palla che rimbalza come un beat, entrandoti nel cervello e seguendolo a tempo, pur essendo te quello che lo detta palleggiando. E poi ragazzi, lo so che non è per tutti i campetti del paese, ma ci vogliono le retine.
Il rumore di quella che accoglie la palla, o meglio il ferro che ne compone alcune, è la benzina per recuperare meccanica e precisione. Aumentando elevazione, movimento, distanza di tiro. Ripescando nel repertorio quello che sapevi fare, e provando qualcosa che non avevi fatto, così come hai ritrovato dal nulla la struttura del tuo posto felice. Fino a vedertelo materializzarsi di fronte.
C’è solo il rumore che produci, e quello del tuo eventuale ansimare. Poi i grilli, qualche cinguettio, il ronzio nell’orecchio di un insetto.
Venti minuti che divengono quarantacinque, poi sessanta e poi un giorno — quando non hai programmi impellenti — aumentano cullati da una trance fatta di pensieri che si incrociano, ricordi che riemergono, scenari immaginati completamente improbabili.
Cerchi di dare un senso a tutto quello, dandoti delle giustificazioni ridicole, ma non reggono.
Passare del tempo nel posto felice, serve solo e unicamente a te.
Ti isola dal contorno, conducendoti fuori dal tempo.
Non serve a niente, non risolve un cazzo, non soluziona alcun dubbio che ti attanaglia, anzi. Ti illude a tratti di aver trovato una via che non esiste, come fuga o approdo ideale. Le endorfine che sprigiona, contrastanti con il dolore del corpo, ti fanno credere che andrà tutto bene.
Dura poco eh, come ogni illusione irrazionale.
Ma chi se ne frega, fin quando hai minuti da spendere in un posto felice che è solo tuo, mentre tutto intorno ti danno del matto.
L’importante è non impazzire, e se per farlo dobbiamo raccontarci coscienti menzogne, benvenute. Finchè dura.